venerdì 13 settembre 2013

La Jihad delle donne mussulmane: per la pace

Tra i familiari delle vittime dell'11 settembre c'è un gruppo molto attivo che chiede non nuove guerre ma, al contrario, giustizia e pace. La sua fondatrice, Valerie Lucznikowska, è una donna divenuta (come tante altre) simbolo della spinta globale contro le politiche di guerra.
E' una battaglia che le donne si stanno assumendo ovunque, stando in prima linea anche là dove per loro ogni rischio è ben più alto che per gli uomini - ad esempio nel mondo mussulmano
Un argomento di cui in realtà sappiamo poco. Lo incontriamo solo quando viene celebrata una singola donna.
Magari perché riceve un riconoscimento (vedi ad esempio la giovane Malala, recentemente invitata a parlare all'ONU) o viene eletta a un ruolo di responsabilità (ad esempio la recente nomina di Aminata Touré a Primo Ministro del Senegal). Ancora più spesso perché viene spazzata via da un assassinio politico (l'ultima, solo pochi giorni fa, Sushmita Banerjee).
Dovremmo invece guardare di più a questo tema nella sua prospettiva principale, che è quella complessiva: quella del fronte comune delle donne, trasversale a tutti i paesi e a tutte le culture, per nuovi modelli di esistenza. Qualcosa che emerge dalla bellissima mostra online Muslima, promossa dall'IMOW, il Museo Internazionale delle Donne.

Proprio di questo, con particolare riferimento al mondo mussulmano, tratta questo articolo di Samina Ali, la curatrice della mostra:
Nel 12° anniversario dell’11 settembre, una domanda importante (ma spesso trascurata) da porsi è: da allora, cosa hanno fatto le donne musulmane per promuovere la pace e la giustizia?
E’ una domanda che si fanno in pochi perché, secondo i nostri stereotipi, in media le donne musulmane sono o in balia di pericolose narrazioni dell’estremismo, oppure troppo oppresse e subordinate per poter svolgere un ruolo attivo come agenti per la pace.
Ma, curando l’esposizione globale Muslima: Arte & voce delle donne musulmane per il Museo Internazionale delle Donne, sono giunta a una visione molto diversa. In effetti, mi sono resa conto che le donne musulmane sono una risorsa misconosciuta e segreta in quella che potremmo definire una jihad globale per la pace e la giustizia.
Curando la mostra Muslima ho avuto l'opportunità di incontrare centinaia di donne musulmane leader, scrittrici e artiste di tutto il mondo. La diversità tra queste donne è mozzafiato: diverse lingue, culture, espressioni artistiche, differenti spettri di fede. Eppure ho scoperto che la passione che, più di ogni altra, anima ogni donna è il lavoro per creare nel proprio paese più tolleranza e uguaglianza, svolto da ciascuna, nell’ultima decade, attraverso attività creative e spesso coraggiose.
Ad esempio, per esprimere il desiderio di pace e di auto-espressione con i suoi i graffiti, l’artista egiziana SuzeeintheCity usa le mura della sua città come una tela. Superficialmente  l’arte dei graffiti potrebbe sembrare una forma di resistenza non seria, ma "vivendo in uno stato di polizia, di costante oppressione e paura", come racconta lei stessa in un'intervista, "è naturale che i muri siano completamente spogli e qualunque forma d’arte esista deve essere approvata e sponsorizzata dal governo...". Dato che in Egitto il tasso di alfabetizzazione globale degli adulti è solo del 66%, la diffusione delle informazioni tramite le immagini è ben più efficace che non le scritte. E il messaggio di SuzeeintheCity, e di altre artiste di strada presenti in Muslima, emerge chiaro: di fronte all’escalation di controllo governativo su libertà e diritti, queste attiviste resilienti rifiutano di subire soprusi in silenzio.
Un'altra donna che rifiuta di esser messa a tacere è Alka Sadat. Vivendo in Afghanistan, dove hanno governato i talebani e tutti i media sono banditi (TV, riviste, giornali: qualsiasi cosa in cui ci siano immagini di persone) lei opera coraggiosamente come premiata documentarista. 
Quando le ho parlato per Muslima, Alka ha ammesso che quando cammina per strada ha sempre paura che “qualcuno possa cercare di ucciderla”.
Talebani e governo hanno già cercato di assassinare la donna al centro del suo ultimo documentario: il film, "Half-value life", racconta le battaglie quotidiane di Maria Bashir, la sola donna procuratore generale del paese.
Lavorando a Herat, una delle città più corrotte del paese, Bashir si è assunta la missione di informare le donne riguardo ai loro diritti legali e islamici per l'uguaglianza. Rafforzate da queste conoscenze, queste presentano un record di rapporti di polizia contro maschi colpevoli. Quando le ho chiesto perché rischi la vita per salvare altre donne, lei mi ha risposto: “la giustizia si può raggiungere solo rendendo le donne consapevoli dei propri diritti. Io dico loro che se lavorano nel governo dell'Afghanistan, possono avere un ruolo significativo per lo Stato di diritto, in particolare riguardo alla giustizia verso le donne". (Samina Ali
Fonte: How the muslim women are waging a Jihad for peace

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